giovedì, agosto 18, 2016

Un onigiri per l`anima

Scavando nei miei ricordi e forse voi nei vostri si ritrovano istantanee di grandi citta` che ad agosto si trasformavano in luoghi di silenzio, di strade solitarie, di serrande abbassate, di negozi chiusi, di sparute pizzerie prese d`assalto dai pochi disperati rimasti in balia del caldo e della noia.

Oggi tutto sta cambiando.

Certo, si avverte ancora quell`insolito senso di svuotamento della citta` accompagnato dal silenzio, dall`oscurita` dei condomini privati temporaneamente dei propri abitanti, ma sono sensazioni molto ridotte rispetto a un tempo.

Io sono rimasta in citta`.

E con me diverse centinaia di migliaia di persone, molti italiani e forse anche in gran parte cosiddetti "immigrati esterni" che - vuoi per impianto culturale o vuoi per ristrettezze economiche - non hanno optato per la provvisoria fuga dalla metropoli.

Un giro, in questi giorni, per Corso Giulio Cesare, Corso Palermo, Corso Romania, ma anche per le vie del centro tradurra` in esperienza le mie parole.

Da bambina aspettavo sempre con ansia l`estate per poter finalmente dormire e non pensare alla scuola, anche se studiare mi piaceva e mi e` sempre piaciuto. Ma soprattutto ogni estate speravo che si potesse andare qualche giorno al mare e sebbene le vacanze estive della mia infanzia siano state poche e modeste, le ricordo ancora con nitidezza ed una certa dose di affetto.

Da anni ormai, cioe` da quando andai via dall`Italia spezzando irrimediabilmente tutta una serie di consuetudini che quasi inevitabilmente si perdono se non ci si circonda di connazionali, non avverto piu` quel bisogno indotto della villeggiatura estiva.

Ed essere ritornata qui non e` servito a ricucire un bel niente perche` ormai lo strappo era fatto e anzi, si e` allargato sempre piu`. Ma questo forse e` argomento per un`altra volta.

Sto riassaporando la mia citta` in veste estiva, una citta` alleggerita dalle troppe persone, dai troppi veicoli, dalle troppe voci che concorrono l`una contro l`altra durante il resto dell`anno.

Le mie parole non sono quelle della volpe indispettita davanti all`uva, ma semplicemente le riflessioni di chi ha smesso di esser parte di questa societa` ufficialmente nell`estate del millenovecentoenovantanove e non e` piu` tornata fra le sue fibre.

Mi manca viaggiare, piu` di quanto forse questo disadorno blog possa trasmettere.

Schegge di Giappone da me
immortalate a giugno di quest`anno
Vi sono notti in cui lacrime spesse, calde e silenziose mi appannano la vista quando realizzo, ancora una volta, che sono di nuovo qui in questa Italia dove sono nata ma che non mi ha riaccolta come avrei voluto e anzi mi ha messa con le spalle al muro tante, tante, tante volte.

Pero` non voglio ora scivolare nel miserabilismo che a sua volta poi sfocia in un pessimismo fine a se stesso. Le cose capitano per un motivo, ne sono certa. Non vi e` casualita`.

E in quei giorni in cui avverto forte quel senso lacerante di nostalgia principalmente per il mio Giappone, fuggo dal pianto nudo e crudo. Quel pianto sconsolato che ti fa affondare nel letto e dove le lacrime bollenti e salate ti ricoprono il viso, facendovi appiccicare tutti i capelli disordinatamente un po` qui e un po` li`.

Quel pianto dove il buio si fa ancora piu` buio.

Ho imparato a fuggire da quel pianto di pura nostalgia perche` porta con se` un sapore sgradevole: quello della speranza che scivola via come un pugno di rena contro vento.

Allora cerco le carezze per l`anima.

Vi ricordate di Jack Canfield e della sua collezione di storie Brodo caldo per l`anima? Erano raccolte di storie vere che avevano come scopo quello di coccolare le nostre anime tartassate quotidianamente da continui esempi di cinismo, di crudelta`, di soprusi, il tutto amplificato a dismisura con l`arrivo di Internet che funge da inarrestabile cassa di risonanza . Sono degli abbracci per chi ha perso o sta perdendo fiducia nel genere umano pensando che esso non sia piu` in grado di agire con bonta`.

Io trovo e ritrovo ciclicamente i miei brodi caldi per l`anima nel ricreare i sapori che amo. E anzi, e` proprio nel ricrearli da sola che ritrovo grande sollievo perche` riuscire a ritrovare, con risorse estremamente limitate e in una cucina che forse e` piu` piccola del vostro sgabuzzino, quei sapori che qui sono difficili da incontrare e` una conquista ed un abbraccio. Ogni volta.

Per me un soul food che mi e` d`ausilio nel riconnettermi col Kanagawa sono gli onigiri oppure omusubi, se proprio voglio usare il termine piu` - diciamo cosi` - del cuore. Vi ricordate quando ve ne parlai? Fate un salto nel passato cliccando QUA, QUI tra i tantissimi articoletti che ho dedicato a questo cibo semplice ma deliziosamente speciale.

Li ho ripreparati molto di recente.

Ho misurato il riso.

Riso giapponese, varieta` Shinode. 
Da quando Yukiko-san ha chiuso il suo bel negozio nonche` mia importante fonte di ingredienti a Torino, sono dovuta ritornare a Porta Palazzo a prendere il riso giapponese.

Non e` un compito troppo ingrato e comunque le varieta` che si trovano sono tutte direi piu` che discrete. La maggior parte di esse proviene dalla Lomellina dove, oltre ovviamente le varieta` nostrane tradizionali, si coltiva riso di provenienza giapponese trapiantato in Italia.

Voi sapete che, salvo rarissime e costose eccezioni, il riso giapponese d`importazione in Italia non si trova. Quello che abbiamo qui e` il cosiddetto "sushi rice", una denominazione data per fornire un indizio su un possibile (ma non di certo l`unico!) utilizzo di questa particolare varieta` di riso.

Se abitate a Torino e dintorni, datemi retta e prendete l`Okome-san oppure lo Shinode nelle botteghe di Porta Palazzo dove li troverete a prezzi onesti. Lasciate perdere la pomposita` pretenziosa dei sushi rice etnici ed esotici della grande distribuzione o - peggio ancora - delle bio botteghe et similia.

Sconsiglio, a meno che non sia davvero l`unica soluzione, di ricorrere a sostituti perche` il risultato sara` diverso e non soddisfacente. Lasciate quindi perdere gli esperimenti con l`Originario o il Vialone Nano. Lo so, si dice che si prestino bene come sostituti, ma non e` proprio vero.
No e poi no categorico per il Basmati o il Thaibonnet, due varieta` assolutamente inadatte per la cucina giapponese.
Sono varieta` di riso non intercambiabili ed e` sufficiente esaminarne i chicchi crudi, anche solo in fotografia, per rendersene conto.

I miei ripieni preferiti per gli onigiri sono le umeboshi 梅干し:

e l`okaka おかか ossia katsuobushi, o scaglie di tonnetto bonito secco, mischiato a qualche goccia di salsa di soia.

La preparazione degli onigiri e` poi molto semplice e - sapete - non servono formine od aggeggi particolari. Servono solo le vostre mani, buona volonta`, un sorriso e un paio di altre cosette che ora vi mostro.

Avrete bisogno ovviamente del vostro riso cotto al vapore, possibilmente caldo, del sale marino, una scodella d`acqua fresca, dell`alga nori giapponese e i ripieni che avrete scelto.

Il mio piano di lavoro:

Esistono varie tecniche, tutte accettabili purche` portino allo stesso risultato.

Io mi inumidisco le mani nella scodella d`acqua fresca, dopodiche` metto un pochino di sale nel palmo di una mano e - lavorando rapidamente - inizio a maneggiare una dose di riso cotto. Per dosare il riso cotto potete aiutarvi con una semplice scodellina, tipo quelle da riso oppure da miso.

Aiutandomi poi con il dito indice, faccio un buchino al centro dell`onigiri e vi inserisco il ripieno che desidero. A questo punto, sempre alla svelta, finisco di modellare il mio omusubi chiudendo il buchino del ripieno e dando alla polpetta la sua forma finale che potra` essere tringolare, sferica, cilindrica, ecc. Sempre onigiri sara`.

E infine, se voglio ma non e` di certo un obbligo imposto dalla legge, aggiungo una foglia di alga nori di qualita`.

Ecco il mio soul food, la mia carezza, i miei onigiri per l`anima:


Preciso una cosa importante che sento di dover sottolineare: per cortesia, non mettete l`aceto nel riso degli onigiri!

Ho notato questa terribile abitudine che, mi dicono, nasce dalla denominazione data al riso tipo giapponese a cui accennavo prima, ossia sushi rice. Un fraintendimento un po` duro a morire.

Sono onigiri, non e` sushi.

Il riso per onigiri non e` condito. Il sale, come avete visto, lo si mette in quando si modellano gli omusubi e non in cottura. L`unica cosa che, se proprio volete, potete usare per dare un aroma in piu` al riso in cottura e` una striscia di alga konbu che rimuoverete non appena l`acqua avra` preso bollore.

Mi siedo, sospiro con calma, prendo delicatamente uno dei miei onigiri e lo addento con affettuosa golosita`.

Altro angolo di Giappone a Torino, da me
immortalato a giugno di quest`anno.
E il mio teletrasporto ha luogo. Il mio onigiri per l`anima ha asciugato, anche questa volta, le mie lacrime.

martedì, agosto 16, 2016

Miraggio di Atsugi-shi

Lo Henohenomoheji* con cui gioco da nascondino
da tanto tempo ormai. 
Vi e` mai successo di trovarvi in un luogo che, per varie ragioni, vi ricorda moltissimo un altro posto?

Non e` un deja vu. Attenzione. E` semplicemente una forte sensazione di somiglianza fra due luoghi, magari molto distanti geograficamente l`un dall`altro, ma che tuttavia condividono un qualcosa che li accomuna.

O forse chissa`, quel qualcosa esiste soltanto negli occhi di chi osserva in quel momento.

Sia come sia, a me questa sensazione capita delle volte. Non e` un evento frequente, a meno che non mi ritrovi a percorrere soventemente uno di questi posti gemellati dal mio sentire.

Nel mio quartiere di nascita, qui a Torino, l`antico quartiere operaio di Barriera di Milano - questo il suo nome - c`e` una Via Bologna che una volta era un importante nodo industriale ma che adesso conserva una frazione delle fabbriche di un tempo.

Adesso, sui suoi lati poco curati, sorgono edifici abbandonati, qualche ditta boccheggiante, muri fatiscenti insozzati da orrendi scritte sgraziate, vecchie case addossate l`un l`altra in un soffocante contatto, modesti negozi di vario genere, qualche supermercato, bar mal frequentati, condomini di piu` recente costruzione, il Centro per l`Impiego e poi una sorta di Ufficio Immigrazione.

E poi la nota stonata: lo sfarzo dei concessionari di automobili di lusso, da BMW a Jaguar, con le loro vetrate brillanti che sembrano quasi non esistere.
E` come se si potesse varcare liberamente quella soglia e raggiungere quei veicoli in bella mostra che contrastano cosi` tanto con l`ambiente immediato che li circonda perche` fatto essenzialmente di indigenza, di degrado, di delinquenza, di stenti, di erbacce, di marciapiedi sporchi, di case popolari, di muri che si sbriciolano, di panchine malconce.

E in tutto questo vi e` un tratto di quella via, dall`incrocio con Corso Novara fino giu` alla farmacia Dabbene e gli stridenti e disarmonici concessionari dove, non so come spiegarvi, ma e` come se vi fosse il mio wormhole di cui parlava Alessandra nel commento all`articoletto precedente a questo.
Una specie di scorciatoia spazio-temporale tra Torino e il Giappone.

Non so spiegarvi con precisione cosa sia a darmi questa sensazione. Da un lato forse quei concessionari ma forse anche quel tratto aperto di strada, quegli alberi, la disposizione del tutto. Non lo so.

So solo che c`e` una porzione della via dove, se mi fermo e ignoro tutto il resto, ho l`illusione di trovarmi in un punto preciso di una grande strada della cittadina di Atsugi-shi, nel Kanagawa, un luogo a poca distanza da dove abitavo io.

Un punto preciso che laggiu` mi ricordava quest`altro punto preciso di Via Bologna.

Andavo da Saizeri-ya, da Tsutaya. C`era anche un ramen shoppu dove una volta mi fermai a mangiare cose deliziose.

E ad acuire questo miraggio cittadino, in questo solitario giorno di Ferragosto dove ho avuto il raro privilegio di essere l`unica passeggera dell`autobus numero settantacinque, e` l`insegna nera dai bei caratteri rossi che recitano: 名古屋 Nagoya.

Ma Nagoya qui e` solo la banalita` avvilente di un nome scelto di fretta per imbastire l`ennesimo tempio del gozzoviglio a poco prezzo: uno di quei cosiddetti sushi-bar cinesi di cui ormai non penso sia immune piu` alcuna citta` italiana.

Solo quei kanji, messi li` a scopo unicamente decorativo e non certo comunicativo, mi confortano.

Ma poi il conforto scompare alla vista delle prevedibili canne di bambu` d`ordinanza, del menu` ingarbugliato e pasticciato, del cinesissimo ed immancabile lampadarione a gocce di possibile cristallo di cui intravedo l`esagerato bagliore dall`esterno.

Il miraggio e` appunto tale. E` un gioco di illusioni, di strani scherzi, di specchi che riflettono cose inesistenti.

A forse venti metri dal Nagoya di periferia, un maleodorante bidone della spazzatura circondato da scatoloni vuoti ricoperti di scritte stampate in kanji che mi rivelano il loro scopo e la natura del loro contenuto originale: sake` d`importazione nipponica.

Riprendo il mio cammino lasciandomi il cunicolo spazio-temporale alle spalle e riprendo piena consapevolezza di essere in una strada desolata qualunque di un quartiere popolare di periferia, in un pomeriggio di Ferragosto.

*Henohenomoheji e` il nome di un personaggio inventato che gli scolari giapponesi disegnano utilizzando a questo scopo sette hiragana. Il nome stesso del personaggio e` infatti la sequenza dei sette hiragana necessari per comporre il volto del personaggio. Riuscite a vedere la sua faccia?
Henohenomoheji へのへのもへじ viene ogni tanto utilizzato anche per dare un volto agli spaventapasseri oppure ai teruteru-boozu in Giappone. Anni fa scrissi qualcosa a proposito di questi ultimi proprio QUI.




lunedì, agosto 15, 2016

La chiarezza delle piccole cose

ざるそば Zaru-soba, una delle piccole cose
piu` buone del mondo. 
Non sono mai stata tanto brava a nascondere i miei sentimenti. Molte persone che mi conoscono mi dicono di riuscire a percepire il mio stato d`animo semplicemente guardandomi in faccia.

Ebbene, se poteste vedere il mio viso esso rivelerebbe la mia emozione nel ritrovarmi qui a scrivere.

Proprio qui, in questo mio luogo cosi` vicino e cosi` lontano contemporaneamente.

Questo luogo che e` stato ed e` scrigno dei miei sentimenti, proprio di quei sentimenti che si distendono sul mio viso con innegabile chiarezza.

Divincolarsi da quelle invisibili sbarre che mi tenevano prigioniera in un groviglio di paure accentuate da fameliche tigri di carta e` stato liberatorio piu` di quanto potessi immaginare.

I giorni scorrono ribelli proprio come un bambino che, nella sua spensieratezza e nella semplicita` della sua dimensione, crede forse nell`infinita` di un pomeriggio e allora ride, corre, corre e ancora corre a perdifiato.

Sono pochi i punti fermi nella mia vita. Quelle poche balsamiche certezze che, nei momenti di disequilibrio, controbilanciano le mia confusione e smarrimento aiutandomi - a volte gentilmente altre volte non tanto - a rimettermi in piedi. 

Vi e` poi il conforto che io attingo dalla chiarezza delle piccole cose.
Cha-soba e Takizawa Sarashina
shinshuu soba. Delizie dei miei giri.

Quei piccoli eventi che forse, dall`esterno, nemmeno meritano tale titolo. 

Prendere il tram il sabato, verso l`una o le due del pomeriggio, e andare in totalissima solitaria al Mercato di Porta Palazzo qui a Torino e quasi ignorare proprio il protagonista multiforme e multicolore della vecchia Piazza della Repubblica, ossia il mercato stesso, e dirigersi a passo svelto e sicuro verso i caotici negozietti di alimentari orientali che si snodano su ambo i lati dei primi due isolati del lunghissimo Corso Regina Margherita.

Quasi senza rendermene conto, seguo una sorta di percorso fisso che mi porta a seguire tappe prestabilite dalla mia abitudine. Questo mio personalissimo percorso mi porta ad andare giu` giu` al fondo per poi ritornare da dove sono partita.

E` curioso perche`, forse inconsciamente, seguo la stessa traiettoria a cerchio che ha caratterizzato la mia partenza e il mio ritorno. 

Torino, la mia citta`. L`inizio e la fine di quel cerchio dal raggio cosi` ampio da aver toccato l`Estremo Oriente e le sue lanterne di pietra grigia e muta.

Come posso spiegarvelo? 

Da ragazzina, poco piu` che adolescente, io venivo da sola a fare esattamente quello che faccio adesso: venivo al Mercato di Porta Palazzo, ignorando totalmente il protagonista di questo ingarbugliato palcoscenico del commercio, e - con i miei riccioli disordinati e spesso senza una lira in tasca - viravo subito in direzione delle botteghe orientali di allora. 
Una o due di quelle stesse botteghe esistono ancora, mentre le altre sono scomparse, inghiottite dal viavai di una societa` che muta.

Andavo a curiosare, semplicemente. 

L`inspiegabile attrazione per l`Asia mi portava a questa mia forma di divertimento che immagino fosse, per i miei coetanei di allora, alquanto stramba. Eppure non me ne fregava assolutamente nulla di quel che pensavano. 

Ricordo che andavo a far domande ai negozianti chiedendo che mi insegnassero ora una parola in cinese e ora un carattere.

Nitidamente come fosse avvenuta ieri, ricordo una conversazione con un signore cinese, ancora vivente e che trovate nella sua leggendaria Cineseria Ming in Galleria Umberto I, attraverso cui il signor Lee lascio` la poco piu` che adolescente Marianna di allora senza parole davanti la sua conoscenza dei caratteri tradizionali, quelli vecchio stile, i piu` belli, i piu` ricchi, ancora in uso a Hong Kong e Macao.

Molti anni dopo, con qualche esperienza in piu` sulle spalle, con gli occhi decisamente piu` allenati a leggere i caratteri ma fondamentalmente con nel cuore lo stesso ardore di un tempo rieccomi di nuovo qui.

E nelle mie esplorazioni in solitaria di adesso, io comincio sempre dal negozio all`angolo con Via delle Orfane dove quasi sempre scovo esattamente cio` di cui necessito perche` e` nel ricreare sapori a cui sono profondamente legata da una cordicella che e` un intreccio di cotone e sentimento. 

Ed ecco come ricreo la zaru-soba, uno dei piatti giapponesi piu` semplici e piu` deliziosi in assoluto, nonche` rimedio anti-natsubate (la spossatezza provocata dal caldo eccessivo) per eccellenza.

Non c`e` bisogno che vi spieghi cosa sia la soba: argomento ampiamente trattato qui in questo luogo prezioso, quadrivio di scritti e pensieri.


Non porto nessuno con me quando vado a fare queste mie esplorazioni dell`anima. 

E` capitato che qualcuno si aggregasse a me per farmi compagnia, ma allora l`esplorazione diventa un giretto qualunque dove i miei occhi pigramente saltellano da questa bottega all`altra senza quella scintilla dell`emozione che e` solo mia, in quella mia piccola solitudine felice. 

Cammino a passo rapido e penso. Spesso sorrido apparentemente al niente, ma che niente non e`.


Sono stille di pensieri che mi accompagnano e che vorrei ogni volta mettere per iscritto, ma quasi sempre sono destinate a rimanere solo pennellate di riflessione.

Se la calura estiva vi tormenta, cambiate un po` ritmo allontanandovi per un attimo dalle solite insalate di riso o di pasta e assaggiate la buona soba giapponese servita fredda, accompagnata dalla sua mentsuyu. 

Frugando un pochino nel mio enorme archivio oppure cliccando sulle etichette al fondo del post, troverete qualche ricetta che vi piacera`.

Per ora vado a godermi lo splendore di altre piccole cose: la fragranza confortante del caffe` vietnamita e le commoventi descrizioni nipponiche di John Lowe.

giovedì, agosto 11, 2016

Invisibili gabbie

Il solito Giappone che un pomeriggio mi ha seguita,
parandosi davanti a me in un anonimo negozio di cose vecchie
della periferia torinese. 
Non credevo sarei piu` tornata a scrivere qui. Qui, in questo luogo che per tanti anni ha accolto le mie parole, i miei sentimenti. Questo luogo che ha accolto me, Marianna.

Lo avevo salutato con l`intenzione di cominciare un capitolo nuovo.

Ma come uno scrittore assalito dal blocco che si ritrova incapace di proseguire con la sua storia, io mi sono ritrovata incapace a proseguire con la mia.

Il sito nuovo e` fermo, imprigionato in una strana stasi da cui non riesco a farlo uscire.

Ho sofferto e soffro per tutto questo.

E mentre scrivo, odo i rombi di un temporale estivo. Di quei temporali che giungono improvvisamente, lasciando dietro se` una scia di profumo di ozono e pioggia.

Ho combattuto contro una gabbia dalle sbarre invisibili. Era una gabbia dentro cui mi sono infilata per poi non saper piu` come uscirne.

Avendo salutato questo blog, pensavo per sempre, la mia mente cosi` ancora poco elastica non contemplava piu` un ritorno qui. Mi ero proiettata completamente verso la nuova dimora digitale che avrebbe dovuto (dovra`?) accogliere i miei scritti.

Ma quando tutto si e` fermato mi sono sentita intrappolata. E mi sono sentita in colpa.

"Dove scrivo ora?". Questa era la mia domanda perenne. Domanda che rivolgevo a me stessa.

Scrivevo dove capitava, veramente. Scrivevo su Facebook, scarabocchiavo su Instagram e buttavo giu` qualche riga in calligrafia incostante sul mio quaderno dalla copertina di un rosso incerto.

Ho poi compreso l`invisibilita` di quella gabbia dentro cui credevo di essere intrappolata.

Non c`erano sbarre. Mi e` bastato alzarmi, distendere le braccia, respirare profondamente e andar via. Via da quell`immaginario luogo di prigionia.

E quindi sono di nuovo qua. Almeno per ora.

Il sito nuovo e` li`. Mi aspetta. Io aspetto lui. Non lo so. Non so quando riusciremo finalmente a prenderci per mano.

Ma intanto sono qui di nuovo a scrivere. A raccontare. A dire. A descrivere.

Potrei raccontarvi tante delle cose avvenute in questo arco di tempo, ma non saprei da che parte cominciare.

Beh, potrei dirvi che sono ritornata sui banchi dell`universita`, a fatica anche se con indescrivibile emozione, nel tentativo di portare finalmente a termine quel percorso di studi iniziato laggiu`, nella bella terra.

Potrei dirvi che ho ancora meno amici di prima e questo non mi rattrista.

Potrei dirvi che, in un giorno di sole iroso, e in maniera del tutto inaspettata, in un angolo asiatico nei pressi del grande Mercato di Porta Palazzo ho realizzato un piccolo sogno: quello di poter trovare tutto l`occorrente per preparare il Cà phê sữa nóng` ossia il caffe` alla vietnamita, una bevanda che ho imparato ad amare nella Convoy Street di San Diego.

Nell`aroma quasi di cioccolato di quel caffe` che, stilla dopo stilla, incontra il latte condensato io ho sempre vissuto il sogno di Hanoi, un sogno che per ora e` ancora tale.

Il pacchetto di Trung Nguyen, con i suoi colori cosi` inaspettatamente familiari, mi attendeva li` in quell`angolo di semi-oscurita`, tra buste di alga konbu, vasetti di te` al gelsomino, gamberi essiccati e panetti di 羊羹 yookan.

I miei occhi, incrociando il giallo ocra della confezione, si sono fermati increduli ad osservare quel nome e quell`immagine.

Sognavo da cosi` tanto di riassaporare questo abbraccio che nasce da una dolce fusione: quella tra il caffe` e il latte condensato.

Si prepara utilizzando un apposito filtro che si riempie con la giusta quantita` di caffe` e poi si posiziona sopra un bicchiere.
Nel filtro si versera` un iniziale goccio d`acqua calda per permettere alla miscela di fiorire dopodiche` si versera` l`acqua restante.

E qui inizia la magia.

La magia di una bevanda che, stilla dopo stilla, filtrera` lentamente nel bicchiere.

Senza fretta. Senza correre. Senza ansia.

E in quell`arco di tempo posso pensare, scrivere, sorridere, semplicemente godere l`adesso.

Ma soprattutto, posso allontanarmi da una gabbia che non esiste e ricordarmi che ogni cosa avviene per un motivo. E non importa se quel motivo non mi e` chiaro adesso. Forse lo sara`, forse no.

Quel che occorre tenere a mente e` che talvolta i singhiozzi, gli ostacoli, gli incidenti di percorso che ritardano lo scorrere programmato degli eventi possono rivelarsi un bene.

Se per ora devo aspettare, va bene.

Aspettero`. Ma non smettero` di scrivere.

Perche` questa e` la mia arte. La mia personalissima arte.

Ben ritrovati, dunque.